Onorevoli Colleghi! - La situazione del nostro sistema penitenziario ha assunto, da anni, i limiti e gli aspetti propri di una crisi strutturale, in ragione sia del ricorso sempre più diffuso alla legislazione penale con i problemi che non da oggi motivano una riforma del codice penale, sia dell'assenza da oltre quindici anni di provvedimenti di amnistia e indulto resi impossibili dalla riforma costituzionale che ha elevato a due terzi dei componenti di ciascuna Camera la maggioranza necessaria alla loro deliberazione.
      È opinione, costantemente motivata nel corso di questi anni dal proponente, come dalle tesi di molti costituzionalisti, di esponenti della magistratura e del diritto, operatori e associazioni che lavorano nel sistema penitenziario, che una nuova riforma costituzionale dell'articolo 79, tale dunque da incidere sul quorum deliberativo, costituisca la premessa indispensabile a un effettivo e non rituale confronto, libero da ogni logica, di schieramento nel merito di possibili provvedimenti di amnistia e indulto. Per tale ragione il presentatore di questa proposta di legge - che prevede la concessione di un'amnistia condizionata, con le esclusioni oggettive di cui all'articolo 2, per ogni reato per il quale è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, e dell'indulto in misura non superiore a tre anni - cui si associa un'altra proposta di legge (atto Camera n. 662) con la previsione di pene detentive non superiori nel massimo a tre anni sia per l'amnistia che per l'indulto - ha presentato come nella XIV legislatura, una proposta di legge costituzionale (atto Camera n. 38) che prevede la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera ai fini della deliberazione di provvedimenti di amnistia e indulto.
      Fra le proposte di legge di merito che già nella XIII e nella XIV legislatura sono state all'esame - senza esito, analogamente ad altre ipotesi di provvedimenti - del Parlamento, vi sono state quelle elaborate da due autorevoli esponenti della magistratura e del diritto, il dottor Francesco

 

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Maisto, sostituto procuratore generale di Milano, e il professore Massimo Pavarini dell'università degli studi di Bologna: quella che di seguito si ripropone integralmente (e l'altra ipotesi di provvedimento che presentiamo con diversa proposta di legge) sono a contributo di una scelta - le cui fondamenta costituzionali sono state prima qualificate - che il Parlamento è chiamato a valutare e ad assumere.

      «1. Nella cultura penalistica e in quella politica da tempo è condivisa una valutazione fortemente negativa nei confronti dei provvedimenti indulgenziali. In buona sostanza lo sfavore nei confronti delle leggi d'amnistia e di indulto - tenendo criticamente conto delle passate quanto numerose esperienze - si fonda su un giudizio di fondo difficilmente contestabile: attraverso detti provvedimenti "eccezionali" non si dà alcuna soluzione ai problemi critici del sistema penale-penitenziario italiano (dagli effetti deflativi dei provvedimenti di clemenza sono stati mediamente assorbiti nell'arco medio di due anni) e nel contempo si sospenderebbe momentaneamente la tensione verso una soluzione strutturale e "fisologica" ai problemi della crisi della giustizia penale che deve, invece, essere perseguita in una radicale riforma del sistema penale stesso.
      Se questo giudizio di fondo è astrattamente condivisibile, assai meno lo è con riferimento in concreto alla situazione del nostro Paese. Chi presta uno sguardo meno svagato e superficiale alle politiche penali nel lungo periodo - dallo Stato post-unitario ad oggi - si avvede infatti che sempre e costantemente si è fatto ricorso ai provvedimenti di clemenza come risorsa decisiva per il governo della penalità entro i limiti di volta in volta posti dalle necessità di compatibilità sistemica. Pertanto niente affatto politica di eccezione, ma scelta costante ed "ordinaria" volta ad operare momentanei ma necessari riequilibri tra input ed output del sistema penale. Ed infatti è bastato che il sistema della politica si astenesse dall'utilizzare questo mezzo, che in un solo decennio, questo ultimo, la popolazione detenuta raddoppiasse e il sistema processuale-penale pericolosamente si avvicinasse ad uno stato di assoluta paralisi.
      L'esperienza comparata ci insegna che in quasi tutte le realtà occidentali moderne, i sistemi di giustizia penale - in quanto dinamicizzati al loro interno da logiche di autoreferenzialità - corrono il rischio di "uscire di controllo", per la loro naturale tendenza a favorire una crescita esponenziale di domande di giustizia a cui nessun incremento di risorse sarà mai in grado di dare risposta. Ed è per questo che, in altri Paesi e in altri contesti culturali, aggiustamenti e riequilibri vengono "fisiologicamente" implementati all'interno del sistema di giustizia penale stesso: si pensi alla valvola di sicurezza data dalla facoltatività dell'azione penale ovvero alla larga "negoziabilità" della pena e del processo.
      Orbene: se contingenze politiche particolarmente avvertite e sofferte impediscono di adottare queste "tecniche" di controllo della "produttività", giocoforza il sistema della politica sarà chiamato permanentemente ad "interferire" dall'esterno sul sistema della giustizia penale per determinare, sia pure contingentemente, nuovi livelli di compatibilità tra risorse e funzioni. E sotto questo punto di vista, l'intervento del sistema politico è non solo utile, ma doveroso.
      Doveroso e non indebito, se non altro perché se la politica non si assumesse questo diritto di interferire dall'"esterno", il sistema della giustizia penale "naturalmente" sarebbe costretto ad adottare soluzioni di compensazione "interne" offerte appunto dalla sua progressiva inefficacia: la prescrizione - ovvero il negare giustizia per decorso del tempo - di fatto opererebbe inesorabilmente, ma con un esito pericolosamente delegittimante per il sistema della giustizia stesso. Come ognuno ben sa, la giustizia negata per prescrizione ulteriormente accentua i criteri di selettività della giustizia penale, favorendo prevalentemente coloro che possono economicamente e culturalmente "resistere" ai tempi lunghi del processo. Per cui la recuperata efficacia del sistema criminale
 

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finirebbe per "scaricarsi" sui soggetti più deboli, di fatto immunizzando coloro che possono sostenere una giustizia lenta e alla fine ineffettiva.
      Considerazioni diverse debbono invece valere per chi paventa l'ennesimo provvedimento clemenziale perché capace di favorire la connaturata pigrizia del legislatore a mettere mano ad alcune decisive e da troppo tempo attese riforme penali che unitariamente intese potrebbero, almeno astrattamente, operare nel senso anche di una maggiore efficienza dell'"impresa giustizia".
      È certo da condividere la posizione di chi confida che solo una drastica riduzione dell'area della criminalizzazione primaria sia in grado di dare efficienza e effettività al sistema della giustizia penale. Ma un atteggiamento di realismo politico ci induce a non confidare troppo in questa soluzione: anche i Paesi che in quest'ultimo decennio si sono felicemente confrontati con una riforma del codice penale (Francia, Germania, Spagna e Portogallo) pur avendo sempre ed esplicitamente assunto questo obiettivo di politica criminale, di fatto non sono stati in grado di raggiungerlo. Ed è seriamente dubitabile che una significativa rinuncia alla risorsa penale possa effettivamente oggi darsi all'interno di sistemi sociali di diritto.
      Pertanto una maggiore efficienza del sistema della giustizia penale con più realismo è invece possibile guadagnarla sul versante di una più estesa negoziabilità in fase processuale attraverso ad esempio un allargamento delle ipotesi di patteggiamento, ovvero - come è nella ratio della recente riforma del giudice unico di primo grado - in una virtuosa economizzazione delle risorse. Poi certo altro si potrà guadagnare in efficienza nell'attribuire ad esempio al giudice di pace alcune significative competenze penali; ovvero nel dare spazio anche nel nostro ordinamento all'istituto della mediazione penale. Ma di più: sulla stessa indicazione offerta dalla commissione per la riforma del codice penale (Commissione Grosso), la scelta in favore di pene sostitutive edittalmente diverse da quella privativa della libertà (come ad esempio il lavoro di pubblica utilità), potrebbe consentire di produrre una qualche differenziazione processuale che finirebbe per tradursi anche in una maggiore efficienza del sistema stesso. Mentre onestamente non ci sembra che si possano nutrire eccessive speranze in un'ulteriore dilatazione dei termini della flessibilità della pena in fase esecutiva - se non appunto limitatamente ad un allargamento dei termini oggettivi per fruire della liberazione condizionale - perché allo stato attuale delle risorse rese politicamente disponibili i circuiti alternativi sono già al limite di tenuta, oltre i quali l'esecuzione penitenziaria extra-moenia rischia di diventare una semplice foglia di fico ad una tendenza decarcerizzante sconsiderata, a meno che non si decida finalmente di investire di più. Cosa che auspichiamo senza riserve.
      Questo orizzonte di realistico riformismo - rispetto al quale scientificamente si deve confidare con estrema moderazione - non soddisfa completamente. Certo - detto diversamente - piace di meno che un diritto penale veramente "minimo", tanto nei codici che nelle prassi dei tribunali. Ma non vorremmo che l'ansia verso il meglio ci sollevasse dal compito di operare subito - oggi - per il meno peggio.
      Comunque, a volere tacere delle diverse opinioni in merito, rimane comunque la circostanza che, quale strategia si voglia adottare per dare soluzione a questa crisi di efficienza del sistema giustizia, il sistema deve potere contare come pre-condizione su un suo per quanto inadeguato funzionamento. Infatti nessuna delle riforme messe in atto e nessuna di quelle che si vorrebbero poter mettere, può entrare a regime se il sistema si blocca.
      A noi non dispiace se il ricorso alla leva della indulgenza viene etichettato come provvedimento di sola e limitata nel tempo "narcotizzazione" delle sofferenze della giustizia. Esso in effetti lo è. La questione che preme decidere è altra: se la sospensione momentanea del dolore deve servire per intervenire sulle cause attraverso processi di riforma, ovvero se si vuole solo rinviare la prossima emergenza ad un
 

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futuro prossimo. La questione ci pare di non poco conto.
      2. Alla emergenza del sistema giustizia si accompagna e si somma quella del sottosistema carcerario. Come sempre su questo delicato tema si rischia di parlare tra il patetico, i buoni sentimenti e l'ovvio. Qualche volta anche con indifferenza. In estrema sintesi: la situazione è effettivamente drammatica. Drammatica in primo luogo per i detenuti. Ma drammatica anche per chi professionalmente opera in carcere. I termini di questa drammaticità possono essere sintetizzati in una sola parola, inelegante quanto emotivamente neutra: sovraffollamento. Ma solo chi conosce la realtà del carcere sa cosa cela questo termine.
      Si dirà che da che esiste il carcere e non solo in Italia, sempre si è sofferto di questo male. È vero, ma oggi il sovraffollamento non indica purtroppo una sofferenza che ci si possa illudere di sanare naturaliter in tempi brevi. L'attuale sovraffollamento è infatti originato da un processo significativo di nuova ri-carcerizzazione iniziato a metà degli anni novanta che con ogni probabilità si dispiegherà su un arco di tempo medio-lungo. All'inizio della precedente legislatura la presenza media dei detenuti è stata superiore alle 57.000 unità e in questi ultimi anni è ulteriormente cresciuta. Una tendenza che si è consolidata e che, anche per alcuni provvedimenti approvati nella XIV legislatura, si è ulteriormente aggravata. Se così purtroppo è, temiamo che non sarà nell'immediato futuro possibile governare il carcere nel rispetto dei diritti dei detenuti e inoltre che la qualità dell'impegno professionale degli operatori penitenziari dovrà essere ulteriormente ridotta. Per altro - se mai si volesse rispondere al problema attraverso un programma di nuova edilizia penitenziaria - si deve tenere conto che per edificare e mettere in funzione un nuovo carcere necessitano mediamente più di dieci anni.
      Il sistema politico non può quindi chiamarsi fuori da chi l'interroga su come garantire la legalità e il rispetto dei diritti umani in carcere, già da oggi. Nell'immediato non esiste altra alternativa che deflazionare per forza di legge il carcere. Il costo di un provvedimento legislativo deflativo è oggi prevalentemente politico. La classe politica si avvede che a questa decisione dovrà prima o poi arrivare, ma teme di pagare un prezzo eccessivamente alto sul piano del consenso sociale e quindi politico. Da un lato, inutile nascondercelo, c'è il timore che attraverso un provvedimento clemenziale di fatto si operi nel senso di un colpo di spugna rispetto ai reati di Tangentopoli (senza però riflettere che il destino di questi - vale a dire la prescrizione - è oramai segnato): dall'altro lato si paventa che l'opinione pubblica oggi particolarmente sensibile ai problemi di sicurezza dalla criminalità predatoria e di strada, intenda ogni provvedimento clemenziale come un pericoloso arretramento in tema di difesa sociale (senza poi riflettere che, trattandosi in questo caso prevalentemente di micro-criminalità, la risposta sanzionatoria e detentiva sarebbe comunque di breve periodo). È certo comunque che questi timori - ove anche in parte fondati - rischiano nella presente congiuntura di determinare una situazione di stallo nell'iniziativa politica. Come dire: tutti alla finestra per vedere chi fa la prima mossa, con il rischio effettivo che nessuno la faccia.
      Ed è per questo motivo che - in ragione solamente delle nostre competenze professionali e della nostra sensibilità nei confronti della tutela della società e dei diritti dei detenuti - confidiamo di potere modestamente contribuire in un senso positivo ad affrontare l'attuale situazione di crisi, avanzando una proposta realistica. Si tratta solamente di una "modesta proposta" per invitare chi ha responsabilità di governo e politiche a prendere posizione. E per fare ciò, ci è parso utile offrire una traccia tecnica che mentre recepisce e tiene nel dovuto conto ad esempio le proposte di legge recentemente avanzate da alcuni parlamentari, a nostro avviso sia in grado di segnare i confini all'interno dei quali è ragionevole sperare in una possibile mediazione politica.
 

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      3. Poche parole infine di commento all'articolato normativo che segue, capace di indicarne sinteticamente la "filosofia".
      Riteniamo che lo spazio di decisione politica nei confronti di un provvedimento di indulto e di amnistia si dispieghi oggi tra quello segnato da due limiti, che abbiamo voluto tracciare nelle due ipotesi estreme: un'amnistia ampia per i reati sanzionati fino a cinque anni, ma prudentemente condizionata per alcune tipologie di reato o d'autore e una più contenuta - di soli tre anni - ma incondizionata».

      La presente proposta di legge ha per oggetto «la prima e più ampia ipotesi di amnistia e di indulto» mentre l'ipotesi più contenuta è materia di un'altra e contestuale proposta di legge (atto Camera n. 662).
      «Secondo quanto previsto dall'articolo 1 è concessa amnistia per ogni reato per il quale la legge stabilisce una pena non superiore a cinque anni, ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta a quella detentiva, oltre ad una tassativa serie di reati a prescindere dalla pena edittale massima prevista. Nell'indicare questi ultimi, si è da un lato tenuto conto, riportandoli, dei reati già contemplati dalla precedente legislazione in materia di indulto e di amnistia del 1990 (decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1990 e decreto del Presidente della Repubblica n. 75 del 1990), aggiungendone altri, quali la ricettazione (articolo 648, secondo comma, del codice penale) e i reati connessi all'offerta di stupefacenti prevista dai commi 4 e 5 dell'articolo 73 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, con la sola esclusione delle condotte di produzione, fabbricazione, estrazione e raffinazione di dette sostanze.
      In ragione dei termini assai ampi - anche da un punto di vista del presumibile effetto deflativo - dei termini di concessione dell'amnistia, si è ritenuto di essere particolarmente severi nell'indicazione di alcune esclusioni oggettive al beneficio. In particolare, oltre a quelle di norma ricorrenti nei precedenti provvedimenti clemenziali (quali i reati commessi in occasione di calamità naturali, l'evasione limitatamente alle ipotesi aggravate di cui al secondo comma dell'articolo 385 del codice penale, il commercio e la somministrazione di farmaci guasti ovvero di sostanze alimentari nocive ovvero infine dei delitti contro la salute pubblica) si è ritenuto opportuno includere anche una serie di condotte criminose o direttamente offensive di interessi collettivi e diffusi (ad esempio: omicidio e lesioni personali colpose per violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ovvero condotte penalmente rilevanti in tema di inquinamento delle acque, produzione di sostanze pericolose, nonché per violazione delle disposizioni contro l'immigrazione clandestina prevista dall'articolo 12 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998; eccetera) ovvero oggi avvertite in termini di particolare odiosità, come alcuni delitti a sfondo sessuale.
      Ma il cuore del provvedimento è costituito dall'articolo 3 che specifica appunto le ipotesi di amnistia condizionata. Le ipotesi che si sono tenute presenti sono fondamentalmente sei: a) condannati definitivi; b) coloro che sono già stati rinviati a giudizio; c) coloro che già rinviati a giudizio devono rispondere di un delitto commesso con abuso di potere o con violazione di doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio; d) coloro che almeno in primo grado sono stati condannati ad una pena superiore ad anni quattro; e) i condannati almeno in primo grado, immigrati clandestinamente; f) tutti coloro che non rientrano nelle ipotesi di cui all'articolo in oggetto. Per questi ultimi la amnistia è incondizionata.
      Per coloro invece che sono stati condannati definitivamente per alcuno dei reati di cui all'articolo 1, l'amnistia è concessa a condizione che costoro, nei cinque anni successivi alla data di entrata in vigore della legge, diano prove effettive e costanti di buona condotta e di volontà di reinserimento sociale.
      Per chi invece è stato già rinviato a giudizio, si prevede la sospensione anche d'ufficio del procedimento penale per i successivi cinque anni; decorso tale periodo,

 

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se il beneficiato ha dato prova effettiva e costante di buona condotta si provvederà ai sensi dell'articolo 129 del codice di procedura penale, altrimenti il provvedimento di amnistia verrà revocato, ragione per cui durante il periodo di sospensione è interrotto il decorso dei termini di prescrizione.
      Orbene, tra coloro che sono già stati rinviati a giudizio, nei confronti di chi risponde per un delitto commesso con l'abuso di poteri o con la violazione di doveri inerenti a una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, l'amnistia è concessa a condizione che il beneficiato si dimetta da detta pubblica funzione o pubblico servizio. Per quanto detta condizione abbia il contenuto proprio di una pena accessoria, per altro atipica, in presenza di un provvedimento di amnistia essa non può definirsi in alcun modo tale. Per chi non ha subìto il giudizio definitivo, infatti, l'amnistia non solo è sempre rinunciabile, ma la rinunciabilità assicura il rispetto di precise esigenze. Pertanto il non adempiere alla condizione significa che l'interessato esplicitamente non vuole usufruirne.
      Altrettanto deve argomentarsi per le due residue ipotesi di amnistia condizionata: nel caso che si sia già stati condannati almeno in primo grado ad una pena compresa tra i quattro e i cinque anni di reclusione, il beneficio dell'amnistia è concesso a condizione che già sia stata riconosciuta la circostanza attenuante dell'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale, ovvero che il colpevole abbia spontaneamente provveduto al risarcimento del danno nonché, ove possibile, alle restituzioni e all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato; qualora sia invece stata irrogata sentenza di condanna sempre di primo grado nei confronti di chi è immigrato clandestinamente, l'amnistia è concessa a condizione che chi ne beneficia abbandoni il territorio dello Stato entro quindici giorni.
      Certamente queste ipotesi di amnistia condizionata segnano un percorso di ragionevole compromesso che pensiamo possibile nell'attuale situazione politica. E quindi solo sotto questa ottica devono essere considerate, anche se è innegabile che possano suscitare alcune perplessità dogmatiche.
      Il fatto che lo straniero immigrato clandestinamente possa beneficiare dell'amnistia dopo avere già riportato una sentenza di condanna di primo grado solo se spontaneamente abbandona lo Stato, dovrebbe rispondere ai timori di chi teme che la sola efficacia deterrente costituita dall'obbligo di buona condotta e dalla volontà di reinserimento sociale possano dimostrarsi inefficaci nel prevenire la commissione di altri reati. Così per coloro che già sono stati - sia pure in primo grado - riconosciuti colpevoli e puniti con una pena compresa tra i quattro e i cinque anni di reclusione, ovvero per coloro che sono già stati rinviati a giudizio per delitti commessi con l'abuso di poteri e con la violazione dei doveri, sembra che le condizioni del risarcimento del danno ovvero della dimissione dalla pubblica funzione o pubblico servizio siano un doveroso riconoscimento all'azione di moralizzazione della vita pubblica ed economica agita in questi anni dal potere giudiziario. E poi, allo stato attuale della crisi del sistema giustizia, a bene intendere queste condizioni, ci si avvede che esse, se adempiute, rappresentano le sole ipotesi superstiti di efficacia preventiva, sia generale che speciale, dell'azione delle agenzie repressive. E non è poca cosa.
      Per il resto - sia per quanto concerne il computo della pena per l'applicazione dell'amnistia (articolo 4) sia per quanto concerne la rinunciabilità all'amnistia (articolo 5) - si è seguito lo schema tecnico già sperimentato nei precedenti provvedimenti clemenziali.
      Infine l'indulto: esso è concesso nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive ed è revocato se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della legge, un delitto non colposo per il quale riporti una condanna detentiva superiore a due anni, così come il precedente provvedimento di indulto del 1990 (decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1990)».
 

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      Il tema carcere e le sue problematiche complesse rinviano, e da lungo tempo, ad interventi legislativi e ad iniziative politiche e sociali che non attribuiscono a un provvedimento di amnistia e di indulto un valore e un'efficacia più ampi della sua natura emergenziale. Né alcuno fra i firmatari le diverse proposte di legge in Parlamento, né gli autori del documento sopra citato, né le associazioni che operano in rapporto con il sistema penitenziario ed a sostegno dei diritti del detenuto o in relazione ai problemi della giustizia penale, appaiono in dissenso su tale punto.
      Assume, così, particolare rilievo, ad avviso del proponente, la raccomandazione che il dottor Maisto e il professore Pavarini pongono a conclusione del loro documento, in diretta relazione con le iniziative proposte da Sergio Cusani per l'associazione Liberi e Sergio Segio del gruppo Abele ad accompagnamento del provvedimento di amnistia e di indulto e che, più avanti, richiameremo. La raccomandazione è che «in attesa che celermente si provveda a portare a termine - nei tempi certamente non lunghi offerti dagli effetti deflativi della legge di amnistia ed indulto - quel necessario processo riformatore del sistema complessivo della giustizia penale, capace di trovare un nuovo e più avanzato equilibrio tra efficienza del sistema e tutela dei diritti umani dei detenuti, è necessario trovare la volontà e le risorse per governare in senso positivo le conseguenze immediate del provvedimento clemenziale stesso».
      Tra le migliaia di detenuti, condannati o rinviati a giudizio che improvvisamente riacquisteranno la libertà, non ci si deve dimenticare che c'è una quota significativa di soggetti deboli, troppo deboli per resistere all'impatto con la libertà spesso «selvaggia» che li attende nella società libera. Giovani tossicodipendenti, immigrati disperati, ammalati gravi, disagiati psichici. Insomma i soliti «poveri diavoli», clientela privilegiata del sistema criminale e delle patrie galere. Difficile pensare che per questi l'amnistia condizionata ovvero l'indulto revocabile possano «da soli» giocare un ruolo significativo nel trattenerli dal recidivare. In mancanza di alternative che permettano un loro regolare reinserimento nel tessuto sociale e produttivo, per loro la pena e il carcere non sono un rischio sociale, ma un destino ineludibile.
      È necessario quindi che al provvedimento di clemenza immediatamente si accompagnino tutti quegli interventi che consentano appunto il reinserimento. La delega tra carcere e società civile non può essere lasciata alle logiche del libero mercato, che in questo caso vorrebbe dire che ognuno provveda come meglio crede e può. Essa deve essere assistita, nel senso di favorire in ogni modo la presa in carico da parte della società civile di questa popolazione che prima e più che essere criminale, è solo marginale e marginalizzata.
      Le iniziative di reinserimento sociale dei detenuti, con un contestuale rafforzamento della sicurezza dei cittadini, secondo Cusani e Segio, dovrebbero essere concepite come un vero e proprio piccolo «Piano Marshall», avente tre piani di riferimento: prevenzione, recupero e reinserimento.
      Non v'è dubbio, al di là dei pur importanti passi in avanti compiuti in questi anni, che in ordine alle problematiche del sistema carcere sia ancor oggi insostenibile il peso delle misure legislative adottate ma non pienamente attuate, dei princìpi e dei criteri di equità della pena disattesi, del fallimento obbligato, in assenza di strumenti e di risorse adeguati, di molte, seppure non tutte, misure di reinserimento sociale dei detenuti.
      Nessuno fra gli operatori del settore e fra coloro che al carcere non dedicano un'attenzione superficiale, emergenziale, né al carcere attribuiscono la responsabilità di affrontare e risolvere problemi che appartengono all'intera struttura sociale, dissentono sulla assoluta necessità di valutare tali problemi con criteri equilibrati, equi, strutturali, ponendo il nostro Paese al di là delle logiche emergenzialistiche spesso, se non sempre, ispirate a una cultura esclusivamente repressiva che, negli anni, a carico dei soggetti più deboli, ha aggravato le condizioni di vivibilità nel
 

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sistema penitenziario senza alcun vantaggio per la sicurezza dei cittadini.
      «Prevenzione, recupero e reinserimento sociale vanno certamente considerati capitoli egualmente indispensabili e strettamente intrecciati di uno stesso discorso. In tale senso, possono divenire parti di un "circuito virtuoso", o, viceversa, costituire gli anelli di una cronica catena di disfunzionamenti destinata a riprodurre il delitto, certificando in tale modo la debolezza del sistema penal-penitenziario, alimentando la sfiducia dei cittadini e lasciando al corrispettivo economico ed alla vendetta del castigo la funzione riparativa per la vittima.
      Si tratta di creare le premesse, le condizioni e le opportunità (vale a dire la definizione delle strutture, la dislocazione delle risorse, la promozione e la formazione delle competenze) in grado di consentire che (non tutti, realisticamente) una quota significativa di quanti escono dal carcere non abbiano a rientrarvi da lì a poco.
      Si tratta, in definitiva, di definire e finanziare un piano straordinario d'azione sociale per sostenere il reinserimento e tutelare la legalità, collegato al varo dell'amnistia e dell'indulto e con un impegno distribuito almeno su un triennio, i cui titoli, possibili e necessari, corrispondono a quelle che sono le facce più problematiche della attuale composizione della popolazione detenuta ed in particolare i malati di AIDS e di altre malattie infettive e i tossicodipendenti».
      Anche sotto questo profilo, con questa proposta di legge si può contribuire, dunque, alle ragioni di nuove politiche in materia di carcere e di giustizia penale, di cui un provvedimento di amnistia e indulto non è la base ma oggi, nelle condizioni drammatiche in cui versano i nostri istituti penitenziari, è la premessa ineludibile.
 

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